La deflazione che investe le economie europee, Italia in primis, viene affrontata con soluzioni di politica monetaria, tralasciando le sue origini e implicazioni di economia reale.
Sarà la memoria ancora viva tra i tedeschi dell’iperinflazione del dopoguerra, fatto sta che lotta dura e senza frontiere all’inflazione è uno dei ferrei diktat delle politiche economiche dell’UE.
Tra i cinque parametri di Maastricht, oltre ai limiti sul deficit e il debito pubblico, c’è il chiaro e indiscutibile monito a che il tasso d’inflazione non superi dell’1,5% quello medio dei tre Stati più virtuosi. Secondo le teorie dell’economia neoclassica, rappresenta il livello ottimale per mantenere la disoccupazione a un tasso “naturale” e quindi sostenibile per l’economia. Ora, già emergono le prime discrasie, visto che l’inflazione è si bassa, ma il tasso di disoccupazione ha raggiunto in Paesi come il nostro livelli economicamente e socialmente insostenibili.
Le politiche economiche messe in atto dalla Troika per contenere l’inflazione devono essergli riuscite così bene che il livello dei prezzi anziché crescere diminuisce: è il fenomeno della deflazione, termine che sempre di più irrompe nelle nostre vite.
Se di primo acchito saremmo tentati a esultare per la maggiore capacità di spesa, i media ci riportano subito all’oggettività, stigmatizzando il fenomeno come una piaga. E, in effetti, la deflazione rispecchia una situazione di stagnazione in cui il sistema economico si trova impantanato. Una diminuzione dei prezzi innesca un’aspettativa di ulteriore ribasso, con la conseguente decisione di rimandare gli acquisti dei beni da parte delle famiglie e di investimenti da parte delle imprese. Come conseguenza, l’offerta si contrae e viene ulteriormente aggravata dal timore di invendibilità della merce, con un effetto negativo che ricade sul livello di occupazione e dei salari.
Chiarito l’aspetto economico, osserviamo cosa accade ai prezzi dei beni di consumo e come cambiano le nostre abitudini di acquisto, ossia gli effetti sull’economia reale. L’abbassamento dei prezzi è un fenomeno tangibile, che riguarda numerosissimi prodotti di largo consumo, dai generi alimentari all’abbigliamento (diverso invece è il caso dei beni di lusso e delle tariffe per i servizi). Al verificarsi di questa diminuzione hanno concorso diversi fattori, riassumibili in un unico termine: competitività, quella che per gli ordoliberisti seguaci dell’onnipotenza del mercato rappresenta la panacea di tutti i mali. L’apertura del mercato del lavoro e dei flussi di lavoratori, accompagnata da politiche nazionali di flessibilizzazione del lavoro (vedi Job Acts) e un’esplosiva crescita della disoccupazione, hanno portato un evidente abbassamento dei salari, che si ripercuote in un calo dei costi di produzione delle merci e in una diminuzione del potere d’acquisto del lavoratore.
Lo scenario è così delineato: da una parte una massa crescente di lavoratori-consumatori con bassa capacità di spesa, dall’altra un’industria di produzione indirizzata a soddisfare la domanda e che può contare su costi del lavoro sempre più bassi.
La delocalizzazione della produzione e la massiccia immissione di immigrati non qualificati – che vanno a rimpolpare l’esercito dei disoccupati o dei sottopagati, nella migliore delle ipotesi – fanno in modo che i salari si livellino verso il basso. Come se non bastasse, una crescente deregolamentazione in tema di tutela della salute e qualità dei prodotti, in linea con i nuovi accordi di libero scambio e apertura al commercio mondiale, ha permesso l’ingresso sul mercato di merci la cui qualità è sempre più scadente.
Tornando all’uomo della strada, gli esempi sono infiniti: dai capi di vestiario venduti a pochi spiccioli nei mercatini, alle continue offerte e sconti applicati nel genere alimentare da supermercati che subiscono la concorrenza dei nuovi venditori h24, senza considerare le grandi occasioni offerte dalla rete. In sostanza, il mercato si autoregola e rivede il suo equilibrio, spostandolo verso il basso: aumenta la massa di poveri, cresce l’offerta di beni economici e di bassa qualità. Un circolo vizioso e perverso, ma in grado di riprodursi e autoalimentarsi, in quanto capace, attraverso l’abbondanza e il surplus dell’offerta di bassa qualità e basso costo, di dare una nuova maschera consumistica alla povertà e alla precarietà. Cresce la fetta di chi partecipa al consumo, che in ogni caso non può e non deve fermarsi, in quanto elemento vitale per la sopravvivenza del sistema capitalistico-consumistico. In alcuni casi si genera persino un’illusione di aumentato benessere: pensiamo alla moda femminile “cheap and chic”, rappresentata dai nuovi colossi mondiali di Zara, Mango, H & M! Difficile ricollegare l’ebbrezza di acquisti glamour accessibili a tutte ai tristi episodi che avvengono nelle città asiatiche dove le condizioni dei lavoratori sono sempre più disumane. L’abilità dei nuovi esperti di marketing e comunicazione sono poi capaci di farci credere persino che la moda low cost, che porta ad acquisti continui di oggetti che vengono subito gettati via e sostituiti, sia un modello sostenibile e rispettoso dell’ambiente e delle risorse!
Di fronte a questo stravolgimento del sistema di produzione e di consumo, che ha radici economiche nel liberismo sfrontato e risvolti di ordine sociale molto compromettenti, la risposta da parte dell’Unione Europea è stata quella di intervenire sul lato della politica monetaria. Per far fronte al fenomeno della diminuzione dei prezzi, sono state messe in atto dalla BCE politiche espansive, consistenti nell’iniezione di liquidità attraverso l’acquisto di titoli di Stato e il concomitante abbassamento dei tassi di interesse. Le strategie si sono rivelate inefficaci, e l’auspicata risalita dei prezzi non c’è stata, né tantomeno gli investimenti si sono dimostrati ricettivi all’abbassamento dei tassi d’interesse, giunti oggi ai minimi storici.
Ancora una volta, le ricette dell’UE si sono rivelate inefficaci, mostrando tutta l’incapacità e l’inadeguatezza degli economisti e delle autorità europee di affrontare i problemi dell’economia reale dei singoli Paesi. Manca una visione strategica in grado di interpretare e guidare le dinamiche socio-economiche che vada oltre la ripetizione dei soliti dogmi teorici e dottrinali, che si sono dimostrati non solo inappropriati, ma irrimediabilmente dannosi.
(Ilaria Bifarini su ID 3/11/2016)