Svenditalia, addio Belpaese!

L’Italia, a partire da Milano, è divenuta preda delle mire espansionistiche di investitori esteri. Dai fondi sovrani del Golfo Persico ai colossi cinesi, le finanze straniere comprano pezzi da novanta dell’economia italiana.

 

La legge del mercato ai tempi della crisi economica non fa sconti: chi detiene ricchezza acquista a prezzi stracciati da chi si trova in difficoltà ed è costretto a vendere. Ancora di più se i gioielli di famiglia sono diventati un onere troppo grande da salvaguardare dalle minacce della concorrenza globale e dalla mannaia del fisco nazionale. Così è accaduto che, dopo i turisti, anche le grandi multinazionali e fondi di investimento internazionali hanno scoperto quanto è bello fare acquisti in Italia. E la meta preferita non poteva che essere la capitale dello shopping italiano per antonomasia, Milano. Una città di cui si torna a parlare, come nei leggendari anni della Milano da bere, specchio di un boom economico in una città da sempre incline alla mondanità patinata. I confronti con la malata d’Italia, Roma, la cui eterna bellezza si sta spegnendo sotto una corruzione che ha infettato ogni membro del pachidermico apparato amministrativo, sono sempre più impietosi. La prima e l’ultima della classe, operosa e indefessa l’una, torpida e indolente l’altra. Ma al di là degli stereotipi e dei fattori storico-culturali, che senz’altro hanno influito nella tempra pragmatica e industriale dei meneghini e nell’adagiarsi sul lusso di una magnificenza ereditata dall’Urbe, è importante notare come Milano stia interpretando il nuovo “modello Italia”.

“In un mondo globale, voi volete stare a difendere l’italianità delle aziende?”, Renzi alla Leopolda del 2013

 

Un modello che vede le industrie del made in Italy passare una dopo l’altra in mano a concorrenti stranieri. L’unicità del marchio, il richiamo alla bellezza, alla dolce vita, all’attenzione per il gusto e per il piacere sono da sempre il brevetto esclusivo delle aziende del Belpaese, capace di attrarre turisti e consumatori. Eppure di questa italianità a guardar bene è rimasto assai poco. L’elenco delle aziende italiane la cui proprietà è passata, per intero o tramite quote maggioritarie, in mani straniere, è lunghissimo e sarebbe più semplice fare una lista dei grandi marchi dell’italianità rimasti tali. Vale comunque la pena di ricordare, nel settore alimentare, che sono stati venduti a aziende straniere Peroni, Carapelli, Sasso, Bertolli, Plasmon, Algida, Pernigotti, Averna, Buitoni; e ancora, le bollicine dello spumante Gancia, Chianti, il torinese gelato Grom, così come Gelati Motta, Antica Gelateria del Corso e poi Galbani, Invernizzi, Negroni, Gruppo Fini, Splendid, Saiwa e tanti altri. Non è andata meglio all’altra storica punta di diamante del made in Italy, il settore della moda: non sono più vanti nazionali ormai neanche Valentino, LoroPiana, Gucci, Armani, Krizia, Pomellato, Bulgari, Ferrè e la stessa Rinascente.

Ma quel che più colpisce del “modello Milano” è la vendita di veri pezzi della città, luoghi simbolo sia del passato che del futuro del Paese. Lo storico Palazzo Broggi a Piazzale Cordusio, vecchia sede della Borsa e simbolo della finanza italiana, è stato rilevato da Fosun, la più grande compagnia conglomerata privata della Cina, interessata a porre tasselli in una metropoli che ospita la più grande comunità d’affari cinesi in Italia. Gli arabi invece, non si sono fermati allo shopping di lusso: oltre all’Hotel Excelsior e al palazzo di Credit Suisse vicino alla Galleria, hanno acquistato il complesso metropolitano di Porta Nuova. Si tratta dell’area attorno a Porta Garibaldi comprensiva di 25 edifici, tra cui la torre dell’Unicredit ed il famoso “Bosco Verticale”, e un agglomerato residenziale di 380 unità abitative. La zona dei grattacieli meneghini, che fa sentire chi ci lavora tanto cosmopolita e addirittura newyorkese, è ora interamente di proprietà del fondo sovrano del Qatar. È stata definita dagli agenti coinvolti “una delle transazioni più importanti degli ultimi tempi”, che apre la strada all’ingresso di altri fondi sovrani in posizione di minoranza.

Insomma, non è proprio farina del nostro sacco questo sprint della capitale lombarda, che pure si mostra ancora una volta all’avanguardia nell’interpretare lo spirito di cambiamento in atto nel Paese. Nonostante l’entusiastico ottimismo mostrato dal ministro Calenda per il forte richiamo e l’appetibilità del made in Italy all’estero, il modello avviato non risponde a una logica di sviluppo e di crescita orientata al benessere diffuso e di lungo periodo. L’Italia, stretta dalla morsa dell’austerity imposta da Bruxelles e con una classe lavoratrice sempre più sottopagata – nei giorni scorsi il premier ha fatto un esplicito appello alle imprese straniere a investire in Italia proprio perché il lavoro costa poco, sigh! – è divenuta preda delle mire espansionistiche di investitori stranieri. Se è vero che le grandi famiglie industriali italiane hanno potuto fare cassa, cosa rimane dell’unicità e autenticità del marchio italiano, se non un oggetto di speculazione destinato a soccombere alle regole del business? Che intere aree metropolitane e luoghi storici del Belpaese, poi , siano passati alla proprietà di fondi sovrani stranieri, deve destare non poche preoccupazioni per quello che la modernizzazione e la crescita tanto propagandata dal governo riserverà al futuro dell’Italia.

 

(Ilaria Bifarini su ID, 8 novembre 2016)

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