Finalmente anche l’UE lo riconosce: l’austerity non ha portato alla crescita, né ha abbassato il debito pubblico e apre a una revisione del Patto di Stabilità. Ma perché una teoria così fallace è stata finora adottata, malgrado gli evidenti fallimenti?
Nel corso degli ultimi anni, per dare una spiegazione al perseverare della crisi economica, è stata costruita una narrazione semplicistica, per la quale essa sarebbe la conseguenza inevitabile di comportamenti irresponsabili e dispendiosi da parte dei governi. La questione del debito è stata ricondotta a una categoria etico-morale, da cui deriva che le politiche economiche di austerity rappresenterebbero l’unica strada percorribile, nonché la pena necessaria e inevitabile per espiare i peccati commessi. Così, facendo leva su meccanismi psicologici e innati dell’uomo, come il senso di colpa, teorie economiche prive di fondamento scientifico sono state riconosciute come assiomatiche e inconfutabili.
Misure di austerità, fatte di tagli alla spesa pubblica, inasprimento fiscale ai fini di ridurre il debito pubblico – nonché ricorso massiccio alle privatizzazioni e alle (s)vendite di asset pubblici nazionali a investitori stranieri- vengono applicate in tutto il mondo, dall’Africa all’Europa, senza risparmiare nessuno (cfr il mio I coloni dell’austerity. Africa, Neoliberismo e migrazioni di massa)
Le motivazioni addotte per giustificare la focalizzazione sulla riduzione del debito sono che, sebbene situazioni gravi di shock come la Grande Depressione del 1929 o la crisi finanziaria internazionale degli ultimi decenni siano molto rare, è opportuno che gli Stati abbiano il giusto tempo per rimettere il debito nel caso in cui esse si presentino e, più genericamente, che il debito rappresenti una condizione negativa per la crescita. Eppure la letteratura economica non riscontra un nesso evidente tra le politiche di riduzione del debito e la diminuzione del livello di rischio di una crisi.
Nel 2010, come una manna dal cielo, due docenti della prestigiosa Università di Harvard, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, proprio quando sta scoppiando la crisi ellenica, offrono la base scientifica di cui i globocrati di Bruxelles hanno bisogno per convalidare le proprie politiche: nella loro pubblicazione “Growth in a Time of Debt”, forniscono la prova “scientifica” che se il debito pubblico di una nazione raggiunge la soglia del 90% del Pil diventa un ostacolo insuperabile alla crescita.
Il paper diventa la Bibbia dei paladini dell’austerity, dalla Merkel ai Commisari dell’UE, fino al partito repubblicano oltreoceano. Lo stesso Krugman ricorda che lo studio ha “un ruolo cruciale nella svolta delle politiche economiche, con l’abbandono delle manovre anti- recessive sostituite prontamente con politiche di austerity.” Quel 90% fornisce una cifra precisa, capace di esercitare quella fascinazione che solo la matematica applicata è in grado di fare.
D’altronde, lo stesso parametro del 3%, imposto come soglia da non superare per i deficit degli Stati dell’Eurozona, è stato scelto su due piedi in base a un’ispirazione mistica:
“Avevamo bisogno di qualcosa di semplice. Tre per cento? E’ un buon numero, un numero che fa pensare alla Trinità”.
(Abeille)
Nel 2013 accade che dei professori dell’università di Amherst affidano a uno studente il compito di scegliere una ricerca e replicarne il risultato. La scelta del giovane Herndon ricade proprio sull’osannato paper di Reinhart e Rogoff e l’esito della sua analisi è sconvolgente: lo studio è compromesso da gravi problemi metodologici e addirittura da un banale errore nel foglio Excel, alcuni calcoli sono sbagliati e viene omesso di includere tra le nazioni esaminate tre casi rilevanti.
Gli stessi economisti di Harvard sono costretti a riconoscere l’errore, sebbene cercando di sminuirne la portata. Ma la credenza che l’aumento del debito pubblico sia dannoso alla crescita non solo non viene scalfita, ma anzi si rafforza e le politiche dell’austerity continuano a seminare sempre più vittime, in Europa come nel resto del mondo.
Secondo uno studio dell’Oxfam:
“Complessivamente l’austerità dovrebbe avere un impatto su oltre due terzi di tutti i paesi nel periodo 2016-2020, colpendo oltre 6 miliardi di persone o l’80% della popolazione mondiale entro il 2020“. E ancora: “Entro il 2025, l’Europa potrebbe avere da 15 a 25 milioni di poveri in più se le misure di austerità continueranno. Tale cifra è equivalente alla popolazione dell’Olanda e dell’Austria insieme.”
D’altronde la nocività delle politiche di austerity è nota agli stessi economisti del Fondo Monetario Internazionale, che in un paper dal titolo “Neoliberism Oversold?”(2016) provano come un consolidamento del debito pari all’1% del Pil aumenta dello 0,6% il livello di disoccupazione di lungo termine e fa crescere dell’1,5% in cinque anni il tasso di disuguaglianza, il cosiddetto indice di Gini. Una vera sciagura per lo sviluppo economico e sociale di un Paese.
Eppure una teoria economica, priva di basi scientifiche è riuscita a prendere il sopravvento fino a divenire un dogma, una verità inconfutabile, con effetti nefasti per lo stato di salute degli Stati e dei cittadini.
3 comments On Teorie sul debito e sull’austerity: tutto da rivedere
Si osanna il debito perché si vede che alle banche, superindebitate, va sempre tutto bene. Ma il problema è che abbiamo a che fare con giganteschi falsi in bilancio. Occorre prima rettificarli per poi fare considerazioni macroeconomiche sensate. Partiamo da qui: http://www.economiaepolitica.it/banche-e-finanza/moneta-banca-finanza/la-moneta-e-capitale-o-debito-di-chi-la-emette/
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“Eppure una teoria economica, priva di basi scientifiche è riuscita a prendere il sopravvento fino a divenire un dogma, una verità inconfutabile, con effetti nefasti per lo stato di salute degli Stati e dei cittadini” (Ilaria Bifarii)
Purtroppo è venuto a mancare il termine di confronto dialettico che esisteva all’epoca dei due blocchi e il liberismo antikeynesiano ha preso il sopravvento come teoria (o, piuttosto, strumento di potere) che favorisce l’oligarchia mondiale finanziaria che ha negli Stati Uniti e nell’Inghilterra le sue pedine fondamentali, da usare anche per sicarizzaare economie di piccoli stati che stavano risollevandosi, facendole riprecipitare nell’indebitamento. Grazie, sempre , a Ilaria Bifarini