Oltre il PIL

Sta per compiere novant’anni e i segni del tempo si vedono tutti. È il PIL, il prodotto interno lordo, quell’indicatore universale in grado di orientare la nostra percezione sulla ricchezza e il potere dei paesi di tutto il mondo, tanto che ci viene spontaneo metterli in ordine e farne una classifica in base ad esso.

A proporre questo parametro era stato nel 1934 l’economista americano Simon Kuznets al congresso degli Stati Uniti per monitorare lo stato di salute del paese nel periodo tra le due guerre. Certo, il suo ideatore non si sarebbe aspettato un tale e imperituro successo, visto che ne aveva già messo in luce i limiti nel valutare un fenomeno tanto complesso quale il benessere di un Paese. Eppure, complice la propensione innata dell’economia alla matematizzazione, questo numero rappresenta ormai l’indicatore più autorevole della storia moderna.

Celebre è il discorso del senatore americano Bob Kennedy nel marzo 1968 -tre mesi prima di venire assassinato, seguendo la sciagurata sorte del fratello-, che punta il dito proprio sui limiti del PIL. Sebbene sia noto a tutti, vale la pena rileggerne la appassionate parole:

“Quel PIL – se giudichiamo gli USA in base ad esso – comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità per le sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck, e i programmi televisivi che esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Comprende le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte urbane. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.”

Le carenze riscontrabili nel PIL non sono poche: dall’inclusione di beni nocivi per la salute e la sicurezza dell’uomo all’omissione del valore del patrimonio territoriale, ingenerando il paradosso per cui un cataclisma che devasta una città produce PIL nel momento in cui si procede alla ricostruzione. Nel calcolo del suo valore non sono inoltre imputati i danni ambientali legati all’attività di iper-produzione, né viene incluso il lavoro domestico o di volontariato.  In generale, il PIL omette di valorizzare quanto non attiene alla sfera meramente economica e contabile: non ci fornisce alcun resoconto sul livello di benessere dell’individuo e della società, sul suo grado di sviluppo e progresso.

Una delle colpe più gravi di questo osannato parametro è il non tenere conto  di un fondamentale indicatore dello stato di salute di un’economia: la redistribuzione della ricchezza in essa prodotta. A partire dalla caduta del Keynesismo in poi (data indicativa 1973)  il  modello economico neoliberista ha iniziato a barattare la crescita misurata dal PIL con l’aumento della disuguaglianza tra la popolazione.  L’indice di Gini, che ne è il misuratore, ha mostrato un trend crescente negli ultimi decenni, sia  tra le economie avanzate che tra quelle emergenti.

Nella sua opera Mitologie economiche (Neri Pozza, 2017) l’economista francese E. Laurent denuncia come in un’economia avanzata quale quella statunitense l’aumento del 2% del PIL comporti la decrescita del reddito per il 90% della popolazione.

Tale paradosso mette in luce tutte le contraddizioni dell’attuale sistema economico e l’inadeguatezza del suo indicatore primario a coglierne le disfunzioni. Che futuro può avere una popolazione che si impoverisce all’aumentare del valore della propria ricchezza? Ha senso continuare a misurare il grado di sviluppo di un’economia con un termometro sbagliato?

In economia tutti i principali indicatori vengono riportati al PIL, dal deficit al debito, all’avanzo commerciale. Sbagliare unità di misura vuol dire sbagliare strategie politiche messe in atto da parte di attori pubblici e istituzionali.

Rimanere ancorati a un indicatore quasi centenario, e per giunta limitato già agli occhi del suo stesso padre, vuol dire deviare la rotta da un modello economico, sostenibile e inclusivo, in grado di creare reale benessere per la collettività.

8 comments On Oltre il PIL

  • Cosa pensa della decrescita felice, ma soprattutto pensa che ormai abbiamo già distrutto l’ambiente e non c’è più possibilità di tornare indietro? (Marco D’Auria 08/04/1958)

  • La semplificazione e’ frutto del messaggio mediatico sempre piu’ semplificato: i media ci stanno abituando a semplificare i ragionamenti, cosi’ che il messaggio politico, anch’esso semplificato, possa esser veicolato meglio e sia vuoto di contenuti, apparentemente omnicomprensivo, quindi vuoto.

  • Marcello, quello che tu scrivi mi sembra molto giusto, ma provocatoriamente domandavo alla Prof. Bifarini cosa ne pensava della cosiddetta decrescita felice, perchè io penso che ormai, sia per i problemi ambientali, per la bomba demografica, anche se il mondo acquisisse consapevolezza sul fatto che il neoliberismo è il vero cancro dell’umanità, in altenativa, sarebbe troppo tardi per qualsiasi tipo di crescita.

  • Corretto e incisivo, come sempre, il metodo di Ilaria Bifarini, che documenta passo passo tutto ciò che fa rilevare. E’ il metodo di chi, in ogni tempo, ha voluto coinvolgere nel dialogo critico e non di chi ha voluto impartire lezioni ex-cathedra, come fanno, nel nostro tempo, gli “esperti ” economisti che ci vengono giorno per giorno a deprimere con le loro curve del PIL, nascondendoci gli “inganni economici” che esse celano bene.
    Grazie, sempre, ad Ilaria Bifarini.

  • Bisognerebbe sostituire i fallace rapporto DEBITO PUBBLICO/PIL con il più virtuoso rapporto DEBITO PUBBLICO/BENESSERE.
    Dove per DEBITO PUBBLICO s’intenda il CREDITO DEI CITTADINI (come di fatto è al centesimo) e per BENESSERE la PIENA OCCUPAZIONE.

  • Concordo a pieno con quanto detto nel post. Tuttavia, sono pessimista sulla possibilità che il PIL venga sostituito come indicatore, o, quanto meno, che la sostituzione vada nella direzione auspicata di tenere conto del grado di benessere della popolazione e degli aspetti virtuosi della sua condizione economica. La ragione è che ho da tempo maturato la convinzione che l’attuale sistema abbia come suo preciso e principale fine esattamente il contrario: l’indebolimento di una grande parte della popolazione (esclusi i “padroni universali,” secondo l’espressione di Krugman, ed esclusa anche una piccola corte di tecnici ed esecutori non sostituibili dalle mcchine), al fine di lucrare la posizione di forza economica e di potere sociale su tali masse che ciò implica.

  • L’articolo è ancora più attuale di prima (del covid). L’indicatore economico denominato PIL rappresenta ai ceti egemoni dominanti (e sempre più ristretti) la misura, come Lei afferma, del loro arricchimento rispetto a masse sempre più impoverite. Infatti la nostra va più che mai caratterizzandosi come epoca del dominio del plusvalore relativo, che beneficia più il capitale che il lavoro, e che è riflesso di un’evoluzione tecnologica che espelle dall’occupazione, invece di crearne di nuova, con popolazioni sempre più degradate, tenute a bada con influenze pandemiche e guerre che prendono il posto l’una dell’altra in sequenza scientifica. Le masse, in più, ignorantizzate dal mainstrem e deprivate di bildung in quanto infiltrate da immigrazioni appositamente volute (con tutto il carico di tragedie, morte, miseria, sfruttamento e lavoro nero) riescono a malapena a comprendere l’origine dei disagi e dei problemi cosmetici, senza percepire (epoca del pensiero “debole”) i disegni globalistici che hanno la loro ultima esemplificazione, come ci ha illustrato Lei con i suoi ultimi lavori, nel Grande Reset e nel Green Reset. L’unica speranza di uscire dall’ingabbiamento mentale prodotto dai descrizionismi falsanti delle matematizzazioni offerte dalle analisi economiche (di per se stesse fuorvianti, in quanto ci offrono solo grafici, statistiche e andamenti generici) è nella crescita delle filosofie del cosiddetto “dissenso”, da un lato e, dall’altro, nella resistenza all’ordine preconizzato da Davos da parte dei Paesi che si adoperano per una svolta multilaterale nella politica mondiale, i cosiddetti Brics. Auguriamoci che quest’operazione, dall’interno e dall’esterno, dia presto dei frutti. Un grazie, sempre.

  • Felice Seneca, beh, sperare nei bricks per risolvere i nostri problemi è come mettere una volpe a guardia di un pollaio. Tutti i problemi del pil evidenziati da Bifarini sono veri e reali ma i paesi brics, oltre a non risolvere questi problemi, aggiungono politiche di tipo autoritario che mi fanno rabbrividire. Almeno da noi se critico il governo non mi aspetto che questa notte alle 3 arrivi la polizia a prendermi e mettermi in galera per anni senza formalizzarmi neanche un’accusa, come succede in alcuni di loro.

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