Libertà di espressione, Garante privacy: “Troppo potere alle big tech… ”

Le piattaforme digitali: signori senza terra, dalla natura giuridica privata ma, proprio grazie a questa, assurti a un ruolo pubblico e totalizzante di “censori” della libertà costituzionale d’espressione. Quale ruolo può attribuirsi al Garante privacy a fronte di tale fenomeno?

di Ginevra Cerrina Feroni (Professore Ordinario di Diritto Costituzionale Italiano e Comparato nel Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Firenze, Vice Presidente del Garante per la protezione dei dati personali),

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Lacune di regolazione e paradossi della rete

Ovvio che l’estensione potenzialmente infinita e incontrollata della libertà di espressione nella rete rischia di favorirne anche il suo abusoe da ciò deriva l’urgenza della sua regolamentazione. A chi debba essere demandata questa regolamentazione, è la vera domanda, che aspetta ancora una risposta. Per l’ordinamento giuridico l’unico soggetto che può arrogarsi il ruolo di intermediare tra le libertà dei singoli cittadini è lo Stato; nella rete, invece, tale funzione, è esercitata in via di fatto dalle grandi piattaforme. Queste ultime non detengono soltanto il potere di decidere, ma spesso sono le sole che possiedono i dati sulla cui base poter decidere e rappresentano, pertanto, gli interlocutori necessari di ogni processo di regolazione. Ormai da molti anni, all’incirca dalla metà degli anni duemila, il sistema di assemblaggio, di interconnessione economica, tra le varie singole piattaforme ha fatto in modo che si venissero a creare imprese nelle mani delle quali si sono concentrati poteri immensi in termini di controllo dei dati degli utenti e delle informazioni scambiate.

Facebook è oggi l’‘ecosistema’ che detiene il vero controllo sostanziale sui flussi di informazioni personali degli utenti: dopo che nel 2012 ha incorporato Instagram e nel 2014 WhatsApp, attualmente detiene l’80% del mercato dei dati tra i social network. Stefano Mannoni proprio su questa testata, riprendendo l’espressione di Nicolas Petit, ha scritto che le piattaforme si pongono come un “moligopolio”: monopolisti in casa, oligopolisti negli altri mercati, secondo un chiaro intreccio di interessi anzitutto economici, ma anche sociali e giuridici. Vengono infatti in gioco sensibilissimi profili di interesse per il diritto costituzionale, cruciali per la tenuta di un sistema democratico e, ancora in gran parte, inesplorati e quindi non consapevolizzati. Primo, fra tutti, il potere, praticamente irraggiungibile e comunque sottratto ad ogni forma di controllo democratico, delle piattaforme digitali: signori senza terra, dalla natura giuridica privata ma, proprio grazie a questa, assurti a un ruolo pubblico e totalizzante di “censori” della libertà costituzionale d’espressione. Si aggiungono i profili legati alla trasparenza delle procedure utilizzate nella repressione dei discorsi d’odio (o asseriti tali), come pure quelli legati alle motivazioni delle decisioni assunte nei confronti degli utenti, alla loro reale giustiziabilità ed ancora all’effettività delle pronunce di giustizia nei loro confronti.

I paradossi di un sistema originariamente ed intrinsecamente anarchico, eppure sviluppatosi in modo sostanzialmente autoritario, si ripropongono continuamente sotto i nostri occhi:

  • il sistema esprime formalmente un assetto ugualitario ma, in realtà, l’impostazione è fortemente gerarchica;
  • evidente l’ossimoro di un regime in cui operano imprese private le quali definiscono contenuti di diritti e libertà costituzionali e procedure per il loro godimento;
  • nessuna neutralità di un assetto nel quale il sistema valoriale è definito dalle piattaforme e con impronta, perlopiù, ideologicamente orientata;
  • la finzione di un metodo che sembra voler sostituire “dal basso” le decisioni che nei vari Stati sono considerate adottate “dall’alto” (Governo, Parlamento), mentre, al contrario, ogni decisione resa manifesta dalle piattaforme è assunta a livello apicale e centralizzato e si riversa sugli utenti senza che essi possano veramente interagire o prendere parte al processo decisorio, né tantomeno “reagire”.

 

Le contraddizioni dell’Oversight Board di Facebook e l’ossimoro di uno Stato che abdica al suo ruolo

La scelta da parte di Facebook di istituire un Comitato di controllo, cosiddetto Oversight Board, va letta proprio come un tentativo di rimediare a questi paradossi. Essa rischia però di confermarli e, in un certo senso, addirittura di consolidarli. L’ambizione è nota: creare standard giuridici globali e farlo attraverso un organo che garantisca una posizione di terzietà. Il punto è: terzietà da chi? Dalla piattaforma (che l’ha creato), certamente, ma anche dai singoli Stati e dalle decisioni particolaristiche dei loro Tribunali. Regole di condotta e di procedura sono raccolte nei cosiddetti statuti del Comitato (Oversight Board Bylaws), che fungono tanto da atto costitutivo quanto da vero e proprio regolamento interno. Giuridicamente gli statuti permettono alle decisioni del Board di porsi come ‘sentenze’ di primo grado nei confronti delle decisioni di Facebook che hanno a che fare con la libertà di espressione degli utenti.

Tali statuti, ispirandosi in massima parte al funzionamento delle Corti internazionali, sanciscono il funzionamento del Comitato: ovvero definiscono la giurisdizione, gli atti sindacabili, la pubblicità dei lavori, i mezzi istruttori esperibili, la procedura decisoria, l’implementazione delle sue decisioni. Viene inoltre esplicitato il ruolo del precedente e della prassi tanto sotto il profilo contenutistico che sotto quello procedurale. Il Comitato sembra voler costituire un’articolazione per la governance di Internet e, in particolare, aspirare alla creazione di un patrimonio giuridico di concetti e case-law che meglio definiscano la portata e i confini della libertà di espressione nella rete. Da questo punto di vista si tratta di un’operazione ragguardevole: come potrebbero infatti giudicare uniformemente, ad esempio, un tribunale saudita o uno italiano, riguardo a un video inneggiante la lapidazione di un’adultera?

Sovrastano, tuttavia, gli aspetti problematici, che riguardano sia l’aspetto pratico, sia quello più sistematico. Sotto il primo profilo, le decisioni già cominciano a mostrare, in questo scorcio di avvio, le prime falle in termini di coerenza ed uniformità di giudizio. Quanto al secondo, mai dimenticare che la creazione del Comitato è una “concessione” di Facebook e che, al di là delle apprezzabili dichiarazioni, non vi è alcun obbligo giuridico di adeguamento da parte della piattaforma né alcun meccanismo coercitivo, dal momento che, a fronte di un suo eventuale inadempimento, non sono contemplate sanzioni né procedure capaci di conseguire l “ottemperanza” delle decisioni del Comitato. Più che di una limitazione, si tratta quindi piuttosto di un auto-limitazione che facilmente si trasforma in una (auto-)legittimazione della propria condotta.

Questo aspetto ci impone di chiederci come il diritto possa reagire, almeno negli Stati democratici, a questo tentativo da parte degli attori privati transnazionali di regolare intensamente interi settori della vita attraverso i propri regimi di governo privato. Di chiederci, cioè, come può essere ridisegnata l’impostazione degli Stati-nazione in modo non forse da impedire, ma certamente da sostituire o, quantomeno, regolare questo fenomeno. Basti pensare a come soggetti che, formalmente, restano comunque privati – col prendere o lasciare, cioè col concedere o negare l’accesso alla “loro” piattaforma che pur è in posizione dominante del mercato della comunicazione social e che è divenuta strumento universale e quotidiano di interazione per le più varie dimensioni della vita (da quella sentimentale a quella professionale) – si assumano, su una base contrattuale unilaterale quanto radicalmente asimmetrica, un potere sostanzialmente pubblicistico (perché concerne la comunicazione esterna con terzi, cioè verso il pubblico). Ovvero, il potere di esercitare un penetrante controllo in relazione alle libertà di espressione del pensiero del contraente debole (l’utente, spesso sprovveduto e comunque di regola non adeguatamente informato riguardo alle funzionalità e ai meccanismi della piattaforma e tantomeno riguardo al trattamento dei suoi dati), così introducendo, a loro autonoma e non negoziabile discrezione, limitazioni e procedure ulteriori rispetto a quelli poste per tutti con la garanzia democratica e paritaria della legge.

Si tratta di una pericolosa forma di “privatizzazione della censura” e del correlato fenomeno di “privatizzazione della giustizia digitale su scala globale”, dai contorni ancora incerti, pertanto ancor più rischioso e da seguire con la massima attenzione. Una prospettiva aberrante, nella quale lo Stato rischia di abdicare al suo ruolo, delegando integralmente alle Internet platforms la regolazione del pluralismo informativo e il bilanciamento dei diritti fondamentali.

La questione centrale è se quest’ingerenza proietti un libero potere ex contractu oppure se, come riteniamo, andando ultra vires, implichi l’assunzione di capacità metacontrattuali, in sostanza pubblicistiche, e dunque incontri i limiti generali delle norme imperative e dell’ordine pubblico ideale, il quale reca con sé la latitudine ordinaria – e privatamente incensurabile! – della libertà di espressione. Limiti che occorre ritenere indefettibili e rendere operativi con l’intervento differenziato e coordinato delle competenti istituzioni pubbliche (fra cui le Autorità indipendenti, ciascuna rispetto alle rispettive attribuzioni, magari, ove necessario, in attività congiunta), perché, ragionando altrimenti, si consentirebbe l’affermazione di un potere privato quasi assoluto e comunque, fortemente ed insopportabilmente autoritario e antidemocratico.

Oltre la libertà di espressione. Quale spazio riconoscere al Garante per la protezione dei dati personali?

Inutile dire che l’emergenza pandemica sta ponendo il problema della libertà di espressione (e di informazione) in tutta la sua gravità. Si richiederà ben presto di iniziare seriamente ad affrontare l’aumento del numero di casi di sospensione/chiusura di account, collegato a opinioni politiche “alternative” o “controcorrente” rispetto all’orientamento ufficiale delle istituzioni pubbliche, sull’implicita base di una presunta “pericolosità” per l’ordinamento democratico o per la sicurezza pubblica (es. la presunta “disinformazione medica”) e iniziare a costruire effettive modalità di tutela dei diritti dei cittadini rispetto all’azione e in particolare, alle limitazioni poste in essere dalle piattaforme social.

Vi è da chiedersi quale ruolo può attribuirsi al Garante per la protezione dei dati personali a fronte di tale fenomeno.

Le doglianze in astratto considerabili – e che anche in concreto sempre più emergono, in modo preoccupante, nelle interazioni fra gli utenti delle social communities – riguardano:

  • il mancato accesso rispetto ad account “spossessati” da hacker, oppure sospesi o chiusi, talora ex abrupto, dalle piattaforme per presunte violazioni dei “termini di servizio”;
  • la mancanza di una motivazione effettiva, a fronte dell’asserita laconica “violazione delle regole della community” e l’impossibilità di contestare la decisione della piattaforma;
  • lo scollamento fra il piano delle pur scarne procedure formali (previste dalle relative policy) e quello dell’operatività concreta dei meccanismi rimediali;
  • la difficoltà di cancellazione dei propri account;
  • in via collegata, la non effettività dei riscontri della piattaforma, ove forniti, in quanto standardizzati e comunque non satisfattivi delle esigenze prospettate dagli interessati;
  • la perdita di esperienze, contatti, emozioni e, come espressamente (e correttamente) dicono alcuni reclamanti, di porzioni di “identità digitale”;
  • con riguardo ad account a uso professionale/ imprenditoriale o promiscuo, danni economici collegati alla perdita di tale “vetrina” e delle interazioni verificatesi nel tempo con clienti, utenti e fornitori.

Si possono ipotizzare effetti persino paradossali come quando gli utenti, non riuscendo a ri-accedere e tantomeno a ri-appropriarsi dei propri account, si riducono a chiedere la cancellazione dell’account medesimo e dei dati ivi contenuti, talora invano. In via correlata, gli stessi non possono più ri-accedere e gestire i propri dati, ma i medesimi dati rimangono nella proprietà della sola piattaforma, ravvisandosi una pericolosa “espropriazione dei dati” (dal noto valore economico, in ragione sia delle informazioni personali sia di quelle statistiche o anonimizzate), posta in essere da tali poteri privati, che si arrogano il ruolo di “censori”, oltre che di giudici di sé stessi.

[…]

(Estratto dell’articolo Libertà di espressione, Garante privacy: “Troppo potere alle big tech, ecco come intervenire”, Ginevra Cerrina Feroni, 15 maggio 2021, AgendaDigitale.eu; immagini liberamente scelte)

 

 

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