I PROFUGHI? LI ABBIAMO CREATI NOI

Dopo il successo di Neoliberismo e manipolazione di massa. Storia di una bocconiana redenta (2017), Ilaria Bifarini torna in libreria con I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa (prefazione di Giulietto Chiesa, pubblicazione indipendente, 2018, 205 pagine, €11,80), continuando la sua lotta di tipo economico per smascherare il pensiero unico dominante volto a presentare il liberalismo economico come buon metodo per gestire l’economia. Nel nuovo libro la Bifarini analizza il caso del continente africano.

La narrazione di comodo del sistema dominante basato su una semplificazione storico-analitica imputa le colpe del sottosviluppo africano unicamente al passato coloniale, con l’obiettivo di occultare le responsabilità delle grandi organizzazioni economiche internazionali e delle pratiche predatorie intrecciate con un falso umanitarismo.

Infatti è attraverso la concessione di prestiti destinati al rimborso del debito contratto che le organizzazioni economiche internazionali hanno esportato e impiantato in Africa la politica neoliberista di matrice occidentale, con la regia della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Apertura totale al libero scambio, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica e rigidi piani di riduzione del debito hanno devastato le economie già fragili dei paesi africani, inibendone definitivamente lo sviluppo.

Il meccanismo utilizzato è lo stesso adottato oggi in Italia e nel resto dei paesi più in difficoltà in Europa: la dipendenza dal debito.

Il coraggioso presidente del Burkina Faso, l’eroico Thomas Sankara, ha pagato con la vita l’aver smascherato già nel 1987 il piano egemonico messo in atto dai poteri finanziari internazionali. Con una formidabile lucidità intellettuale egli aveva compreso l’inganno e la manipolazione utilizzati nello spostare la questione del debito pubblico su un piano etico e morale.

“Ci dicono di rimborsare il debito: non è un problema morale. Rimborsare o non rimborsare non è un problema d’onore. (…). Il debito non può essere rimborsato, prima di tutto perché se non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno: siamone pur certi. In vece, se paghiamo, noi moriremo: siamone ugualmente sicuri.”

Il suo successore, nonché assassino, Blaise Compaoré, regnerà per oltre 25 anni, applicando in modo ortodosso le misure economiche neoliberiste imposte dai poteri sovranazionali. Quelle stesse politiche che hanno definitivamente represso ogni timido tentativo di sviluppo di un’industria nazionale propria che si stava palesando nel continente africano dopo l’indipendenza dalle potenze coloniali, attraverso la cosiddetta “industrializzazione per sostituzione” (ISI, Import Substituting Industrialization) e grazie al riconoscimento da parte del GATT del “diritto alla protezione asimmetrica” per i paesi in via di sviluppo.

A seguito di misure di austerità molto ferree, gran parte dei paesi dell’Africa subsahariana presenta oggi livelli di debito pubblico ormai tra i più bassi al mondo. I tagli alla spesa governativa e ai già scarsi servizi pubblici locali a favore delle privatizzazioni, che generano profitti per gli investitori esteri e incentivano il fenomeno della corruzione tra élite locale e internazionale, hanno provocato un peggioramento delle condizioni di vita della popolazione, in termini di ulteriore aggravamento del tasso di disoccupazione e del livello di disuguaglianza, in una regione del mondo dove la povertà è endemica.

Ai giovani africani – il cui numero cresce in modo esponenziale a causa di fattori demografici strettamente connessi a quelli economici – non resta altra alternativa che lasciare il proprio paese e imbarcarsi in impervi viaggi della speranza. Non deve perciò sorprendere se i maggiori Stati di origine degli immigrati che arrivano ogni giorno nelle nostre coste sono tra quelli che presentano un trend di diminuzione del debito pubblico più “virtuoso” proprio negli ultimi anni (es. Nigeria, Eritrea, Gambia, Ciad).

Con alcuni decenni di ritardo, l’Europa e l’Occidente intero stanno vivendo quanto già accaduto nei paesi del Terzo Mondo a partire dagli anni Ottanta, senza trarre alcun insegnamento dalla loro esperienza.

 

(Fabrizio Fratus per Ilgiornaleoff)

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